Davvero la soluzione dei tanti problemi che affliggono la città di Crotone e tutto il territorio della sua ex provincia potrebbe essere l’incontro tra due cani: quello a sei zampe dell’Eni e quello alla catena che è il capoluogo. Per quanto, quello alla catena, di cani, possa abbaiare, digrignare i denti e avventarsi ai polpacci di eventuali incauti passanti, non riuscirà mai a liberarsi da solo, con le forze che gli rimangono e ci sarà sempre un impietoso vicino, infastidito da cotanto dimenarsi, pronto a sferrargli un calcio alla mascella. Fuori dalla metafora e dalla zoologia, la città descritta nel piano industriale della società che si è aggiudicata l’appalto per la gestione dei tre aeroporti calabresi di Lamezia, Reggio Calabria e Crotone, parrebbe appartenere a uno stato del Messico, quale è il Chiapas; così remoto, isolato e lontano eppure così ricco di risorse naturali, ambientali e paesaggistiche tipiche di una civiltà pre-colombiana. Per il neo gestore dell’aeroporto crotonese, se pure qui esistessero risorse altrettanto cospicue di quelle del Chiapas, non varrebbe comunque la pena investire del denaro (pubblico, e men che meno privato) per spezzarne l’isolamento attraverso uno stabile collegamento aereo se questo fosse più utile per ingigantire e preservare l’esistente, ovvero l’aeroporto di Lamezia. Non desti stupore l’adozione di questa logica da parte di un management chiamato a formulare un piano industriale, laddove essa è stata gia abbondantemente sperimentata in altri comparti del trasporto pubblico e della viabilità. L’ex manager delle ferrovie, Mauro Moretti, condannato in primo grado per la strage di Viareggio del 2009, ha fatto scuola in Italia, ma ha decretato al tempo stesso l’abbandono della tratta ferroviaria jonica, Taranto Reggio Calabria, nel cui centro esatto c’era Crotone. Nel 1993 aveva ancora un senso andare a occupare i binari alla stazione ferroviaria crotonese, perché a quel tempo c’erano dei treni che passavano, e difatti così fecero i manifestanti durante il settembre dei fuochi all’Enichem. Occuparli oggi i binari in segno di protesta contro decisioni che penalizzano la città, non avrebbe alcun senso e neppure un grande impatto. Talvolta per lo stesso scopo viene occupata la sede stradale della 106, ma gli effetti ed i disagi si riverberano in primo e esclusivo luogo contro l’utenza ordinaria; poi tutto passa, tutto rientra e si tira a campare lo stesso. Così succede a Crotone, così accadrà qualora le vertenze in atto, a partire dal destino, per ora infame, dello scalo aereo crotonese, dovessero indurre la popolazione a scendere in piazza. Non ci sarà mai abbastanza coesione, in fondo non ce n’è mai stata da queste parti e quindi ecco perché la forza contrattuale ingenerata dalla protesta popolare è come l’abbaiare e il digrignare dei denti di un cane alla catena. Ci vorrà dell’altro per poter sperare in un miglioramento delle condizioni economiche e sociali che vivono il capoluogo e l’intera ex provincia, ma vedremo dopo cosa potrebbe servire. Dunque, su Crotone non si vola e se si volerà potrà deciderlo come e quando solo il nuovo gestore dello scalo aereo crotonese cui l’Enac “Ente nazionale aviazione civile” ha affidato, tramite bando di evidenza pubblica, il destino. Al momento parrebbe non esistere uno piano di rilancio e di sviluppo del S. Anna e quindi neppure delle garanzie occupazionali concrete, neanche per i dipendenti che lì hanno lavorato da sempre. Diversa è invece la situazione del “Tito Minniti” cioè dello scalo aereo di Reggio Calabria, anche esso affidato al gestore dell’aeroporto di Lamezia, la Sacal. Nel capoluogo reggino continuerà a operare la compagnia aerea nazionale, l’Alitalia, ma si è offerta di farlo anche un’altra compagnia low-cost, coprendo giornalmente, entrambi i vettori, le tratte di maggiore interesse nazionale. Così stanno dunque le cose: se Crotone piange, piange da sola e basta, nessuno lo fa con lei, e poi perché dovrebbe farlo ? Quello che c’era “in palio” nel 1970 era, apparentemente, solo un pennacchio, ovvero la dislocazione della sede dell’istituenda Regione, ma a Reggio Calabria non la pensarono così, non volevano rassegnarsi all’idea che il capoluogo di regione divenisse Catanzaro. Avevano visto lontano i reggini, si era ben capito che il nuovo istituto costituzionale, delle Regioni, avrebbe portato con se sviluppo e benessere. Basta guardarlo adesso cosa è diventato il capoluogo regionale, la “Città delle aquile”, interessato da attraversamenti stradali che la California non potrebbe neppure sognarseli; due poli ospedalieri pubblici con annessa facoltà di medicina; sviluppo urbanistico ininterrotto in direzione mare (sia Jonio che Tirreno); rete di collegamenti metropolitani in continua espansione; sede di uffici e dipartimenti statali. Avevano visto giusto a Reggio Calabria, mentre a Crotone neppure Nostradamus ci avrebbe azzeccato che un giorno sarebbe arrivato un pensionato a capo del servizio sanitario pubblico che avrebbe soppresso l’elisoccorso e, a breve, anche il servizio del 118. Quindi, nel 1970, nella città della Fata Morgana si incazzarono e pure di brutto. Fu nell’estate di quell’anno che scoppiarono i moti di Reggio che presto si trasformarono in una vera e propria rivolta popolare, altrimenti conosciuta come quella dei “boia chi molla”; una rivisitazione del motto coniato da Gabriele D’annunzio a opera di Ciccio Franco, poi divenuto senatore, ovvero quello che fu il protagonista assoluto di quelle tragiche vicende. In dieci mesi la città dello Stretto fu messa a ferro e fuoco, ci furono dei morti, dei feriti; degli assalti a sedi di partiti e sindacati; furono schierati addirittura i carri armati in missione antisommossa; gli attentati si moltiplicavano e le implicazioni politiche-insurrezionali si allargavano sino a lambire lo stragismo e le strategie della tensione. Una rivolta popolare guidata da elementi della destra storica e nostalgica, dalla quale la sinistra, dal Pci al Psi, si dissociarono sin da subito, per poi convogliare verso Reggio Calabria uno sciopero indetto a livello nazionale per ragioni contrattuali legate al mondo del lavoro nel tentativo di non lasciare la città isolata completamente nelle mani degli insorti e degli eversori travisatisi da capi-popolo. E misero addirittura delle bombe sui binari mentre i treni degli operai in sciopero provenienti da tutta Italia scendevano verso Reggio Calabria che era il luogo prescelto per la manifestazione. Frattanto a Roma si trattava, si prendevano decisioni importanti e si proponevano alternative purché i reggini non si opponessero alla scelta di fare di Catanzaro il capoluogo di regione e si ponesse pacificamente fine alla rivolta. Quella cessò circa un anno dopo; i rivoltosi di Reggio avevano ottenuto la sede del Consiglio regionale in riva alla Stretto, la costruzione del quinto centro siderurgico e il dislocamento di un impianto per la sintesi dei prodotti petroliferi; questa linea di interventi fu altrimenti nota come “pacchetto Colombo” varata da Emilio Colombo che all’epoca dei fatti era Presidente del Consiglio. Spianarono gli aranceti di Gioia Tauro; a Saline Joniche l’impianto petrolchimico comunque costruito, non entrò mai a regime. Si registrò un fallimento quasi completo, a parte la sede del Consiglio Regionale e per trovare una destinazione d’uso per il sito di Gioia Tauro, visto che la siderurgia italiana andava incontro a privatizzazioni e dismissioni, si inventarono il porto dei container, oggi conosciuto nel mondo anche come il più grande terminal per i traffici intercontinentali di droga. Tutto questo accadeva circa mezzo secolo addietro a Reggio Calabria, una città inquieta che, ritrovata un minimo di serenità, appena qualche anno dopo la “rivolta dei boia chi molla” fu ridestata dagli spari del “Roof garden” dove, con l’uccisione del boss Giovanni Di Stefano ebbe inizio la cosiddetta “Prima guerra di ‘ndrangheta” con i suoi duecento omicidi. Ecco, Crotone non ha nel proprio dna lo spirito di rivolta che occorrerebbe, e forse servirebbe, per spezzare l’isolamento in atto e porre fine alle ingiustizie che la città e il suo territorio stanno subendo da un trentennio a questa parte. La rivolta, quella del 1993, è durata pochissimo,praticamente non ha portato a dei risultati concreti, fatta eccezione per l’elevazione a Provincia (ora abbandonata in braccio a Maria). Però abbaia; digrigna i denti, ma è pur sempre come un cane legato alla catena e come tale non nuoce; non può contrastare i suoi nemici e combattere i propri avversari. Troveranno certamente una “pezza a colori” per rattoppare il disastro dell’aeroporto, ma giusto per non perderci la faccia tutti coloro che ne hanno pilotato, volontariamente o per manifesta incapacità, la rotta verso l’impatto col suolo. Quando non puoi combattere il nemico, quando non hai la forza per contrastarlo adeguatamente, forse è giunto il momento di cercarsi degli alleati e farsi degli amici. In fondo, la sussistenza o meno dell’aeroporto S.Anna è ben quantificabile in un fabbisogno finanziario che non supera i quattro milioni di euro. Due si possono ricavare dai volumi di traffico; ne restano da trovare altrettanti a garanzia della continuità operatività e della sana gestione. Pochi giorni fa si è affacciata al Comune di Crotone, a quello che ha sede a piazza Resistenza, non a via Roma, una ricca e potente rappresentanza di quel cane a sei zampe che è l’Eni. L’azienda petrolifera di Stato si sarebbe detta disponibile ad aiutare concretamente la città in un suo percorso di ripresa e nuovo sviluppo; tranne che a finanziare “balli e balletti”. Forse è giunto il momento di chiedere all’Eni qualcosa di veramente concreto, cioè di farsi garante dei due milioni di euro che mancano per ogni anno di esercizio affinché l’aeroporto di S. Anna possa ritrovare una propria autonomia gestionale e che si riprenda a volare. Poi si vedrà a come riprogettare l’aeroporto, perché anche di questo si tratta; laddove il traffico passeggeri tradizionale non basta. Forse è questa l’unica alternativa possibile, perché l’altra sarebbe “tirar fuori le palle” ; emulare Reggio Calabria, e Crotone non può, perché le sue le ha appese al chiodo da tempo immemore.
Antonella Policastrese