E’ finito è tutto finito

CROTONE – La storia della mafia in Sicilia è costellata di clamorose uccisioni, stragi e misteri irrisolti, da Salvatore Giuliano in poi, un fiume di sangue ha percorso quella martoriata regione, lasciando sui propri argini detriti di menzogne, bugie e falsità. Come ciottoli tratti dal fiume, usati per tirarci su le case ed i palazzi; con quei detriti, sospinti verso le rive scarlatte nell’arco di mezzo secolo, è stata costruita anche l’Italia di oggi. La distanza che esiste tra mafia e Stato in Italia, è quella di un binario; due rette che non si incontrano mai, ma che conducono verso una meta. Quella meta è il potere; economico ieri, finanziario oggi; geopolitico l’altro ieri, globalizzato ai giorni nostri, partendo dai moti indipendentisti siciliani, utilizzati per lo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, proseguiti con il banditismo di Salvatore Giuliano e terminati con la strategia stragista di Firenze, di Roma, di Milano perpetuata agli inizi degli anni novanta.


La mafia serviva e serve ancora, quantomeno come modello di gestione del potere e come diversivo di massa, per distrarre l’attenzione dalle forme di oppressione contemporanee. La mafia come modello di associativismo e consociativismo occulto, da cui la massoneria trae linfa vitale e strategie attuative. E dunque si arriva alla sintesi della cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, al culmine dell’epoca stragista con i massacri di Capaci e di Via D’Amelio, dove persero la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il 23 luglio del 1992, il capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto, di ritorno dalla sua tragica ricognizione in via D’Amelio, dove avevano perso la vita Paolo Borsellino con gli uomini e le donne della sua scorta, intervistato da un cronista della Rai, al quale strinse teneramente le mani che reggevano il microfono, ebbe a dire, tra le lacrime,  queste parole: “È finito tutto! È finito tutto! …Non mi faccia dire altro! Non mi faccia dire altro!” Paolo Borsellino era l’ultimo pezzo bianco opposto ai neri su una tragica scacchiera di morte. E dunque la partita era finita; finita per sempre, prima di rivivere  in una pletora di processi, tra una folla di pentiti, falsi o veri, in un turbine di indagini che, nei fatti, non hanno mai gettato piena luce su un particolare e tragico momento della vita italiana. La cattura dei boss Riina e Provenzano; l’individuazione e perdurante ricerca del nuovo boss dei boss, Matteo Messina Denaro,  non sono altro che il “minimo sindacale” per dimostrare l’iperattività dello Stato nella lotta alla mafia. E dunque aveva ragione Antonino Caponnetto nel dire che era tutto finito, ma non solo perché erano morti i suoi due giudici più valorosi, i suoi guerrieri più forti. All’orizzonte altri scenari si profilavano; altre strategie si andavano attuando, altre formule di assuefazione si andavano adottando e altre inutili regole della lotta alla mafia si stavano attuando. Perché la mafia non era già più solo traffico di droga, estorsione e appalti; come, all’indomani della morte di Michele Navarra, ucciso da Luciano Liggio, la mafia non era più quella dei campieri , dell’abigeato e delle lottizzazioni. Ai giorni nostri è come se la mafia avesse raggiunto la vetta più alta del cielo, perché essa è in paradiso; quel paradiso fatto di speculazioni finanziarie in assoluta simbiosi con una potere politico trans-nazionale, non più quello nostrano costruito sulla benevolenza e addirittura complicità di amministratori e parlamentari siciliani. Tutto è dunque finito quel 19 luglio del 1992; ma le avvisaglie di questa fine annunciata erano state limpide come la luce del sole allorché a settembre di dieci anni prima, era caduto il generale e super prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Lo stesso uomo che fu inviato tra le campagne di Corleone a combattere la ferocia di un astro nascente della mafia siciliana, quel Lucidano Leggio, detto Liggio, che aveva “sostituito” il dr. Michele Navarra, che aveva fatto sparire il sindacalista Placido Rizzotto; che aveva fatto sopprimere, dallo stesso dottor Navarra, il pastorello Giovanni Letizia, in quanto testimone della morte di Rizzotto. Tutto stava per finire quando nel 1982 fu ucciso il generale Dalla Chiesa; perché egli aveva scoperto che quel fiume di sangue che irrorava le città e le province di Sicilia, era alimentato da torrenti di denaro, provenienti da lontano,  che ne ingrossavano il corso. Tutto finì dunque con le parole di Antonino Caponnetto il 23 luglio del 1992. Quello fu il giorno della resa, poi tutto ebbe un senso e la storia d’Italia imboccò un nuovo corso: quello che conduce a una nuova resa, quella nelle mani dei mercati finanziari internazionali e dell’Europa a trazione tedesca. Ma in Italia, ancora oggi, si combatte la mafia; quello che è rimasto di essa, brigantaggio per lo più; contiguità, a fini prettamente imprenditoriali, con la bassa politica; terra dei fuochi; traffici di mondezza e poco altro. Le conquiste sono confisca dei beni e assegnazioni di questi a cooperative e associazioni caritatevoli, che poi non sanno come gestirli e farli fruttare, perché lo stesso Stato non gliene offre i mezzi.