“Ti puoi togliere qualche sfizio… I Carabinieri (…) sono venuti a portarmi il regalo in ufficio (…) Usciranno le foto di Delrio a Cutro con i mafiosi…Tu non ti ricordi quello che io ti dissi, che c’era un’indagine, quelli che hanno arrestato a Mantova, a Reggio Emilia, i Cutresi, quelli della ‘ndrangheta… (…) chi ha fatto le indagini è il mio migliore amico, e adesso ci stanno le foto di Delrio con questi…”.
Questo è un brano di una intercettazione telefonica nell’ambito delle indagini avviate dalla magistratura di Potenza sul caso che ha portato alle dimissioni della ministra Federica Guidi ed è stato così riportato sulla stampa. La conversazione sarebbe avvenuta tra Valter Pastena, consulente del Ministero per lo sviluppo economico e Gianluca Gemelli , compagno della Guidi. Essa si inquadra nell’ambito di questioni correlate alle sollecitazioni del Gemelli nei confronti della ministra, affinché gli desse una mano nella realizzazione di alcuni suoi progetti, almeno per quanto aveva fatto nel fluidificarne di altri, come quelli che, per esempio, interessavano imprenditori vicini al Presidente del Consiglio, per la gestione degli aeroporti di Firenze. Come a dire: “per loro fai tanto e per me niente”. Il nome del ministro Graziano Del Rio spunta fuori in merito a una presunta antipatia di questi nei confronti di Federica Guidi; da lì la rivelazione consolatoria e confidenziale del consulente Valter Pastena fatta per telefono al compagno della ministra. Sin qui la cronaca che sta tenendo banco a livello nazionale in queste settimane e di sguincio è tornata prepotentemente alla ribalta la vecchia questione della visita di Del Rio a Cutro quando era sindaco di Reggio Emilia. Ci sarebbero delle foto che lo ritraggono nel corso dei festeggiamenti in onore del Santissimo Crocefisso e indubbiamente c’era tutto il paese in quella occasione; di foto dell’evento ne esisteranno a milioni. Quella visita del ministro Del Rio risale al 2009 e il processo che ha preso le mosse dall’operazione denominata “Aemilia” e che vede coinvolte presunte cosche di cutresi, si sta celebrando in questi giorni, ovviamente dopo una fase istruttoria molto vasta. Il nome dell’ex sindaco di Reggio Emilia comparve nel 2012, cioè quando l’attuale ministro alle infrastrutture fu ascoltato dalla DDA di Bologna nel corso delle indagini. Presumibilmente gli furono esibite delle foto, forse quelle stesse di cui fa cenno nella sua telefonata a Gianluca Gemelli il consulente Valter Pastena e che non sortirono effetto alcuno, in quanto non emerse nulla in quella circostanza nei confronti di Del Rio. Sulla buona fede del ministro e cioè che egli non si era recato a Cutro alla ricerca di voti per la sua rielezione a sindaco di Reggio Emilia, mise le mani sul fuoco anche don Luigi Ciotti. Sicché il più importante e influente ministro del Governo di Matteo Renzi, non fu neppure sfiorato da quella peste che si chiama accaparramento del voto mafioso. Ma ciò che non valse per lui, quantunque documentato da immagini che ritraevano niente altro che la visita di un sindaco in un paese della Calabria, sovente non tenne al riparo altri politici del passato e pubblici amministratori dei nostri giorni. Il voto mafioso è ben difficile da dimostrare, eppure ne sono accusati in migliaia. Vedasi la tormentata vicenda di Carolina Girasole e la storia del campo di finocchi. Il prete antimafia, fondatore di “Libera” sostenne che sicuramente Del Rio non poteva sapere che a Cutro c’erano dei mafiosi. Probabilmente è così, l’ex sindaco di Reggio Emilia aveva evidentemente conosciuto una operosa e onesta comunità di lavoratori venuta su al Nord per lavorare e mai avrebbe potuto credere che un giorno, quella stessa comunità, sarebbe stata identificata, senza distinguo alcuno, come “Clan dei cutresi”. Ma appare strano che l’universo mondo si accorga o si ricorda dell’esistenza della mafia in Calabria quando gli scannamenti, le faide, la ferocia delle cosche oltrepassano i confini regionali, macchiando di sangue città e contrade lontane o pervadendo le operose realtà imprenditoriali del nord. Questa “rivoluzione” ossia il radicamento delle mafie al Nord, con i suoi metodi, il proprio business, le sue guerre e le sue faide, uscì dalla fase embrionale nella seconda metà del ventesimo secolo. La guerra tra famiglie di n’drangheta nel territorio tra Petilia e Mesoraca era cominciata nel 1989; ma per quanto cruenta essa sia stata, per quanto vaste fossero le propaggini delle attività criminali di quelle famiglie che proiettavano la propria ombra sino ai confini con la Svizzera, con solide basi in Lombardia, ci vollero almeno una dozzina di anni affinché assumessero una rilevanza nazionale. E questo anche grazie al sacrificio e al martirio di Lea Garofano. Sinistri nomi di affiliati – Totonno u lupu – Smith – occuparono le colonne dei grandi giornali. Le cronache lombarde del recente passato, tra i cui protagonisti figuravano Vallazasca, la banda della “Comasina” quella di Luciano Lutring e dei “marsigliesi” di Albert Bergamelli, lasciarono il posto a quelle che ben più feroci personaggi stabilitisi in quelle terre andavano scrivendo col sangue. La storia della “ligera” ossia delle bande criminali che avevano operato in Lombardia sino alla prima metà del ventesimo secolo, diviene un libro di ricordi lontani, poiché a dominare è la “pisanta” come è anche conosciuta la n’drangheta. Si può non sapere o fingere di non sapere; nella storia delle mafie è sempre stato cosi, al punto che, ai tempi delle prime Commissioni parlamentari sul fenomeno della mafia in Sicilia, si invocava la nomea, la vox populi, la propalazione come prova bastante per incriminare qualcuno di contiguità con la mafia. Lea Garofano sapeva e non riuscì a fingere di non sapere, se solo lo avesse fatto, specialmente dopo che le era stato revocato nel 2006 il piano di protezione per i testimoni di giustizia, forse sarebbe ancora viva; magari in Australia, laddove il collegio difensivo dei suoi carnefici, durante il processo di primo grado nel 2012, sosteneva che fosse fuggita insieme alla figlia. Ma lei andò avanti, si appellò al Tar contro quella decisione e quindi per essere riammessa al programma di protezione insieme alla figlia Denise. Anche il Tar rigettò la richiesta e ci volle il Consiglio di Stato per riconoscerle quello che era un suo diritto; “un minimo sindacale” dopo quanto aveva rivelato. Ciò avvenne nel 2007; due anni dopo, a novembre del 2009 Lea Gaofalo fu massacrata in un appartamento di Milano; il suo corpo fu portato in agro di Monza per essere dato alle fiamme. La verità sulla scomparsa della donna venne a galla grazie alla dichiarazioni spontanee di Carmine Venturino, fidanzato di sua figlia Denise, condannato all’ergastolo durante il processo di primo grado nel 2012, pena commutata a 25 anni in Appello e confermata in Cassazione a dicembre del 2014. Poi tutti seppero; seppero e impararono anche il linguaggio usato dalla n’drine calabresi. Ancora prima che l’Accademia della Crusca desse l’approvazione al termine “petaloso” a Milano risuonava con grande enfasi giornalistica il vocabolo “pisciaturo” uscito fuori nel corso di intercettazioni telefoniche riguardanti i rapporti tra elementi della n’drangheta e un assessore della Regione Lombardia, poi dimessosi perché accusato di voto di scambio tra politici e mafiosi secondo l’articolo 416 ter del Codice penale. Con il medesimo capo d’accusa, quando era sindaco di Isola Capo Rizzuto, a dicembre del 2013 era stata arrestata, processata e poi assolta Carolina Girasole. Quell’articolo del Codice penale, che la inchiodava, era stato rimaneggiato e modificato nel 2014 dal Parlamento su specifiche indicazioni delle associazioni antimafia, tra cui un ruolo determinante ha sempre avuto “Libera” l’associazione di Don Luigi Ciotti, la stessa cui la Girasole si apprestava a affidare un campo coltivato a finocchi confiscato al clan Arena. Un ruolo attivo, dunque, quello di “Libera” nel territorio crotonese infestato dalla n’drangheta, al punto che l’associazione antimafia di Don Ciotti era in grado di rilasciare patenti di integrità morale a chi riteneva non avesse nulla a che vedere con la mafia; come, semmai ce ne fosse stato bisogno, a Graziano Del Rio, sentito dalla Dda di Bologna nel 2012 per la sua famosa visita a Cutro. Per la Girasole invece le cose andarono diversamente. Finita in carcere perché accusata di essere stata eletta con i voti del clan e per aver ricambiato il favore con dazioni (non esclusivamente in denaro, come previsto dal 416 ter dopo le modifiche fatte apportare dalle associazioni antimafia) di beni pubblici, fu processata per aver consentito la raccolta di finocchi nel terreno confiscato e in procinto di essere assegnato a una associazione temporanea di scopo tra il comune di Isola e Libera. Di quella vendita avrebbe tratto beneficio il clan, rientrato praticamente in possesso dei frutti della terra che gli era stata confiscata. Nelle more del perfezionamento della assegnazione della terra alla cooperativa d’emanazione di Libera, la Girasole avrebbe dovuto procedere alla distruzione dei finocchi,la famigerata frangizollatura, ma ciò non avvenne e fu indetto un bando pubblico per la raccolta degli ortaggi che, è parere indiscusso, sono i migliori del mondo. A quel bando potè concorrere pure il clan e da lì avrebbe tratto un illecito guadagno, ovvero la contropartita dei voti con la quale Carolina Girasole sarebbe stata eletta a sindaco. Durante il processo “Insula” don Luigi Ciotti, chiamato come testimone, ebbe ad affermare che i finocchi andavano assolutamente distrutti perché coltivati su un terreno già confiscato e per mandare un segnale forte a chi aveva avuto l’arroganza di coltivarli. Ed è così che per una motrice e rimorchio carica di finocchi si possono imbastire processi, gettare il nome di cittadini nel fango; un po’ come si è cercato di fare nei giorni scorsi per Graziano Del Rio, solo per essersi recato a Cutro con l’intento di assistere a una processione molto sentita e della quale, sinceramente lusingati, i cutresi trapiantati a Reggio Emilia avranno pure avuto occasione di parlarne al proprio sindaco adottivo che adesso è un potentissimo ministro del Governo Renzi. Nello scorcio di mafiosità e dintorni qui narrato, occorre dire che i finocchi l’hanno scampata bella, non sono stati frangizollati; Caterina Girasole è stata assolta dalle infamanti accuse; Graziano Del Rio non avrebbe mai potuto sapere a cosa sarebbe andato incontro con la sua visita a Cutro, come ha sostenuto Don Luigi Ciotti. Andrebbe pure confermata la regola secondo la quale i preti dovrebbero fare quello che gli riesce meglio, ovvero confessare peccati anziché attestare colpevolezze e innocenze. Per Lea Garofano, no;lei è stata pestata a sangue, strangolata, il suo corpo, chiuso in uno scatolone e portato nelle campagne di Monza, è stato arso per tre giorni mentre le sue ossa venivano sminuzzate a colpi di pala. Almeno fosse morta a Petilia come suo fratello Floriano nel 2005; ad ucciderlo era stato Totonno u lupu, aveva detto Lea agli inquirenti che la interrogarono sui fatti. Ma anche se un lupo tace la specie non si estingue e gli ululati non cesseranno mai. Il resto della vicenda sarà raccontato in due sabati dal programma “un giorno in pretura” a partire dal 16 aprile.
Antonella Policastrese