Pezze sul deretano, ma siamo in Europa

 

 

A distanza di sessanta anni dai “Trattati di Roma” con i quali, di fatto, è stata istituita quella che oggi è denominata Unione Europea (già CEE – Comunità Economica Europea),è azzardato fare previsioni su quanto ancora possa durare questa forma di unità, quasi forzata, tra paesi sovrani del continente Europa, dalla quale è divenuto quasi impossibile,e comunque lungo e difficoltoso uscire. Non è che non fossero nobili ed esaltanti i principi che erano alla base di quell’intesa politico-economica, ma le trasformazioni intervenute con un trattato successivo a quello sottoscritto a Roma il 25 marzo del 1957, ne ha deviato, nei fatti, i principi di coesione che l’ avevano ispirata. Perché a Lisbona, nel  2007, furono introdotte delle regole tra paesi membri che hanno finito per incanalare gli accordi transnazionali in un alveo quasi esclusivamente di carattere economico e, soprattutto, finanziario. Nella capitale portoghese si decise per la regolamentazione dei dazi (nessun dazio tra gli stati membri e uno comune nei confronti degli altri paesi); per l’adozione di politiche comuni (agricoltura e trasporti) ; per la costituzione  di un fondo sociale europeo   e l’istituzione di una banca dell’Unione (BCE). La regolamentazione dei dazi ha finito per avvantaggiare i paesi esportatori, Germania in testa, e penalizzare tutti gli altri che devono rinunciare, in favore della UE, alle imposte praticate sulle importazioni di merci provenienti da paesi extraeuropei. L’istituzione di una banca comune, che gestisse una moneta unica, ha fatto il resto. Più rinunce che vantaggi, è a quanto sono andati incontro paesi come l’Italia nel corso di questi sessanta anni e, segnatamente, dal 2009 in poi, proprio quando l’Europa era stata colpita in pieno dal contagio della grande recessione finanziaria originatasi in America e avrebbe avuto bisogno di coraggiose politiche di investimento, di tutela del reddito e della produttività. Perché le politiche finanziarie dettate dalla Germania attraverso la BCE e l’adozione di severi piani d’austerità hanno finito per creare una Europa che non t’aspetti e non t’aspettavi potesse assomigliare così tanto a quella tramontata tragicamente  nella primavera del 1945. Tra le rinunce chieste agli stati membri da parte della UE, la più insistente è quella relativa alla cosiddetta “Sovranità nazionale”. Una roba, questa, che l’Italia ci ha messo un gruzzolo di anni , dal Medioevo sino al 1861, per conquistarla; qualora non vi rinunciasse, sarebbe tacciata di “nazionalismo” e chi incita a non ubbidire a cotanta bestemmia è definito “populista”. Ebbene, lo ha ammesso di recente anche il “profeta” italiano dell’austerità europeista, l’ex premier Mario Monti, che le parole Nazione e Popolo sono nobili e bellissime; perché oggi facciano così schifo ai nemici delle sovranità nazionali, in fondo è facile capirlo. Perché l’ Unione Europea fra stati sovrani e autonomi non avrebbe più senso e ragione di esistere, tanto più che non ha mai messo a riparo i suoi membri da guerre e conflitti; non ha garantito la pace; non ha mai perseguito l’uguaglianza tra le classi sociali; non ha saputo fare fronte comune contro il terrorismo; non è riuscita ad arginare (qualora non li abbia addirittura incoraggiati e favoriti) i flussi migratori; non ha messo solidi paletti nelle politiche di accoglienza tra chi fugge da guerre e chi migra per ragioni economiche. Si è arrivati al punto di poter dire che l’Italia è solo una squadra di calcio che indossa una maglietta azzurra; che è più una regione della grande Europa che una nazione nel pieno senso del termine. Lungo questo crinale, di assorbimento di funzioni, verrà il giorno in cui una nuova lettera congiunta dei direttori della Bce chiederà/imporrà all’Italia di sopprimere le regioni, così come ha fatto con le province. Davvero l’Unione Europea si regge troppo su luoghi comuni e slogan; sulla cieca  ubbidienza di qualsiasi classe politica sia al potere e  sull’asservimento pedissequo di gruppi finanziari che posseggono i mezzi di informazione. In ballo ci sono i profitti garantiti solo per una ristretta cerchia di individui, ancorché i diritti per tutti i cittadini che di questa Europa fanno parte. Bugie dunque; menzogne costruite ad arte, alcune della quali finiscono per essere accettate e propalate come verità assolute persino dalla Chiesa e dalle organizzazioni umanitarie. Alcune di esse sono di lieve entità; come il sostenere a tutti i costi che il problema della massiccia presenza ingiustificata di immigrati nelle città italiane sia soltanto percepito; oppure il negare che l’Italia non sia all’altezza di garantire adeguata accoglienza, dignità di cittadinanza e fruizione di pari diritti a coloro che sono stati regolarizzati. La verità è invece che i migranti arrivati sulle italiche sponde, da richiedenti asilo o da clandestini, godono di accoglienza, diritti e protezione nelle strutture protette o dedicate sino a quando non ottengono il riconoscimento dello stato di profughi. A quel punto, per il loro mantenimento, lo Stato non versa più nelle casse degli istituti e delle istituzioni che accolgono  i migranti, i famigerati 35 euro al giorno e quindi li lasciano andare, incontro al loro destino, qualunque esso sia: quello di mendicanti, di sfruttati o di delinquenti. E’ una assurda, ignobile menzogna, questa si, gravissima, continuare a dire che gli stranieri che vivono e lavorano in Italia garantiscono la pensione agli italiani; esattamente a 650 mila di nostri connazionali. E questo grazie a un presunto spread, di oltre due miliardi, a favore dell’erario che deriva da quanto gli stranieri versano nelle casse pensionistiche e quanto gli è erogato in prestazioni previdenziali da parte dello Stato. Un conto che riesce facile, ma solo qualora si ignorassero (come li si ignorano)  i tassi di disoccupazione, di inoccupazione e rinuncia a cercare lavoro che si registrano in Italia tra la popolazione residente e attiva  e che sono cresciuti a dismisura negli anni immediatamente successivi alla piena affermazione della UE nel Vecchio continente; praticamente dal 2009 in avanti (il trattato di Lisbona del 2007 entrò in pieno vigore l’1 dicembre del 2009). Quanti in più sarebbero i contribuenti per le casse degli istituti pensionistici se lavorassero quei 18 milioni di nostri connazionali che oggi se ne stanno a spasso ? Quando l’Italia avrà perduto o rinunciato completamente alla propria sovranità nazionale, con essa avrà smarrito la propria identità; anche in questo senso subdoli processi sono in atto. Per alleggerire un po’ i toni dell’argomento trattato, sia utile un esempio di smarrimento di identità riferito alla nostra lingua, che fu di Cielo d’Alcamo e di Dante. La rete telefonica che consente i collegamenti senza un allaccio fisso, da noi è definita “mobile”, cioè non ancorata e vincolata a dei punti fissi e stabili; la sua caratteristica è quindi la portabilità. Perché dunque ai giorni nostri quella stessa rete, con un inglesismo, la si identifica con un termine che si scrive “mobile” (esattamente come in italiano) che ha lo stesso significato di portabilità, ma che si pronuncia “mobail” ? Si rivolterebbe nella tomba il grande Giuseppe Verdi qualora sentisse cantare a un italiano l’aria del “Duca di Mantova” con versi  come  “…la donna è mobail, qual piuma al vento…”. Loro, i cugini del Regno Unito, canterebbero così i versi verdiani: “la donna è fikle…qual piuma al vento” perché il termine “fikle” appropriatamente significa, mutevole, volubile. Ma d’altra parte ci siamo adeguati e ci adeguiamo a tutto e quindi, nello specifico, a pronunciare in inglese un termine che in Italia è scritto allo stesso modo (mobile), laddove gli inglesi potrebbero usare il vocabolo “movable” senza privarlo del medesimo significato. Invece no, perché in italiano il vocabolo “mobile” si potrebbe riferire a un elemento dell’arredo domestico, laddove questo, in inglese, è tassativamente definito “furniture”. Babele ? No, globalizzazione, che è ancora peggio in un peggio che deve ancora arrivare anche se è abbastanza imminente e che sarà determinato dalla fase di uscita dal pianeta globale. Poi l’intera umanità, così come l’abbiamo sempre vissuta, verrà catapultata verso il futuro, ovvero nel “Planet of the apes” nel “Pianeta delle scimmie” laddove “apes” sono i gorilla e “monkeys” le scimmie. Anche qui c’è differenza tra sostantivi usati e loro significati, magari di poco conto, ma quella  tra generi è di vitale importanza per imparare a distinguere tra loro quelle creature, ossia tra gli antenati ai quali taluni antropologi hanno ascritto la nostra discendenza.

 

 

Antonella Policastrese